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Bestie da Soma di Teofilo Patini

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Titolo: Bestie da soma

Oggetto: Dipinto

Materia e Tecnica di esecuzione: olio su tela

Datazione: 1886

Autore: Teofilo Patini (1840-1906)

Bestie da soma, che porta la data del 1886, venne presentato per la prima volta al pubblico e alla critica all'Esposizione Nazionale di Venezia del 1887. Primo Levi si affrettò a comunicare all'amico Patini, con un telegramma inviatogli il 16 aprile di quell'anno, che “l'opera desta viva impressione tra gli artisti”. Pochi giorni prima, nel giornale aquilano “La Gazzetta Commerciale” del giorno 1 aprile 1887, ne veniva pubblicata una recensione in cui l'autore sottolineava la continuità dal punto di vista contenutistico dell'opera patiniana: “...questo quadro ha suscitato forti emozioni e un senso di profonda ammirazione pel valente artista, il quale, mentre si è riaffermato con una nuova opera d'arte, ha portato un'altra parola di protesta in prò di coloro che lavorano e soffrono; altra parola validissima, che unita all'Erede al Vanga e latte, altri quadri dell'egregio Patini, formano un tutto armonico che ci completano per intero l'animo del pensatore e dell'artista, consacratosi, con ogni palpito all'umanità sofferente.” Bestie da soma, che venne eseguito ed esposto successivamente a L'erede e a Vanga e latte, presentati al pubblico rispettivamente all'Esposizione Nazionale di Milano del 1881 e all'Esposizione Nazionale di Torino del 1884, venne subito interpretato come la continuazione di uno stesso “discorso” di documentazione della realtà, attraverso la rappresentazione degli umili della sua terra. Un “discorso” questo a volte male interpretato da alcuni che, forse per un mancato approfondimento della conoscenza del contesto storico, sociale, economico e anche geografico in cui si formò e visse il Patini o, peggio ancora, per una sottovalutazione dell'ingegno, del carattere e dello spirito del Patini stesso, uomo, letterato, filosofo e artista, è stato in maniera assai riduttiva considerato come “una specie di patetico sentimentalismo” originata da temi lacrimevoli, lamentosi e tragici, costruiti su “stracci”. Per costoro, la risposta tuttora attuale pare essere quella che Giulio Podrecca diede per una critica più larvata nel suo saggio “Teofilo Patini”, in “L'Abruzzo Letterario” del 16 dicembre 1906 : “Patini ebbe la fortuna di trovare la forma per i suoi proletari – così in un giornale d'arte. Sciocchi! Patini trovò l'anima del proletariato, onde la forma che nessuno ebbe uguale. Anima e corpo, essenza ed involucro formano un tutto solo, né si può aver l'uno senza l'altro. Chi non trova la forma per esprimersi, in arte come in filosofia, non ha niente da dire, perché nulla ha in sé. I cenci di Patini dicono un poema perché egli ebbe in sé l'immenso poema del dolore umano.”

Il Patini ci viene ricordato come un pensatore, un “profondo filosofo”, soprattutto da coloro che ebbero la fortuna di frequentarlo, come ad esempio da N. Colella che da una visita al pittore nel suo studio uscì “cogitabondo” e colpito non solamente “...dall'opera di colui che vive tra le idealità vigorose e le armonie dell'Arte Classica, ma anche quella dell'uomo che non vive estraneo alla vita dell'opera e che medita profondamente e sente tutto quello che si aggira intorno a lui.” e ancora come da M. Chini che così descrive un incontro avuto con l'artista nell'ottobre del 1903: “... ero da lui, e, al solito, avevamo intavolato una discussione d'arte. Dall'arte alla filosofia, con un pensatore come il Patini, non era difficile passare, e dalla filosofia in generale alla metafisica in particolare il passaggio era più facile ancora ...” L'arte sociale fu la manifestazione più sublime della sensibilità di Teofilo Patini, scaturita dalle sue doti di pensatore e plasmata dalle particolari condizioni ambientali in cui era cresciuto e in cui viveva. Giustamente annota Savastano  che “Si è errato quando si è parlato dell'Arte del Patini costringendolo in una indiscriminata schiera di pittori dal sottofondo di romanticismo deteriore”, perché nella rappresentazione del dolore e dello sconforto della miseria umana, che egli individuò e riprodusse nelle sue forme più naturali, quasi fosse un'artistica missione, il Patini seppe sempre trovare accenti di commozione sincera.

Nell'opera di Patini, ma soprattutto in Bestie da soma, va ancora constatata la presenza della donna come attrice principale, rilevo inconfutabile se si prendono in considerazione opere quali Vanga e latte e la stessa Bestie da soma, che al pari di tutte le altre del periodo della pittura sociale sono frutto di meditazioni profonde sul ruolo della donna e, particolarmente, della donna madre.

Il Patini ideò Bestie da soma a Castel di Sangro e nello stesso luogo ne eseguì gli studi preparatori e molto probabilmente lo dipinse: E' stato rilevato che il paesaggio, che fa da sfondo alla scena, è però Roccapia, paese dove viveva il fratello medico del Patini. L'osservazione, come riporta C. Savastano, sembra avvalorata dal fatto che nei paesi del versante Peligno dell'Altopiano delle Cinque Miglia le donne che andavano a “legnare”, al fine di portare quanta più legna fosse possibile, aggiustavano il fascio sulla schiena e lo fermavano con delle corde intrecciate sotto le ascelle ed incrociate sul petto.

Le tre donne, raffigurate in grandezza di poco superiore a quella naturale, sono l'espressione di tre periodi della misera, quanto infelice esistenza dei contadini. Ancora toccante è la lettura del dipinto, offerta nella citata recensione, che apparve nel giornale aquilano “La Gazzetta Commerciale”  del giorno 1 aprile 1887: “Da un lato vi sta una vecchia, vinta dalla fatica, la quale, gettato il fascio di legna ìto a fare nel bosco, si è lasciata cadere ed è rimasta in un torpore straziante ... Chi sa quante e quante volte questa infelice vecchia avrà fatta l'istessa via con un egual peso sulle spalle!”... Chi sa quante goccie di sudore, cadenti dalla rugosa fronte si saranno mescolate alle cocenti lacrime e saranno cadute brucianti  sulla sassosa via!... Oggi è là ancora col suo fascio; oggi, che l'età le darebbe diritto al riposo, è là ancora ad arrampicarsi coll'incerto e debole passo sull'erta pietrosa – Povera donna! Una ingiusta ed inumana legge  ti ha dannato e senza pietà alcuna ai tuoi anni, ai tuoi acciacchi, alle sofferenze tue e ti grida ancora: lavora, lavora. E tu, senza tregua, senza misura andrai sempre avanti finché un giorno, assassinata dalla fatica, cadrai ... Vicino a questa misera, sta a sedere una giovinetta; essa più forte per le giovani membra, sopporta con meno stanchezza la fatica; ma il suo cervello non sa rassegnarsi alla orribile idea che anche per lei è serbata tale via crucis che la trarrà ad abbrutire come la vecchia. Questo pensiero funesto le trasfonde sul volto un sentimento di indefinibile angoscia. La terza figura mette n sussulto nel core, e, ponderando la condizione, un brivido di spasimo corre per tutte le fibre. Una donna ancora giovane, ma avvizzita, invecchiata anzi tempo dagli affanni, ha poggiato il grosso ceppo che porta legato sulle spalle, alla sporgenza di una rupe. Essa vi è rimasta inchiodata; che non può curvarsi né torcersi, perché è inoltrata nella gravidanza. Ed è rimasta così, in una specie di languore, schiacciata fra il ceppo che la tira per le spalle e il grembo carco che la obbliga a star diritta.”

Tre donne, tre generazioni diverse, ma tutte con lo stesso ineluttabile destino.

“Tutta questa scena fra le balze e le rupi di una montagna brulla, sassosa con poca vegetazione, il vero fondo che si voleva a tale concezione.” e si badi che, come ha osservato S. Gallo, “Il paesaggio non è una quinta, ma è il commento lirico della natura; riempie la scena della sua fisicità, di un'estensione che non perde corpo e concretezza. Non potrebbe mai darsi un risultato di tale inesorabile plasticità d'ogni elemento del quadro – dalla mano poggiata a terra della contadina, alla pietra, al rovo – se non vi fosse questa individuazione delle forme così puntuale e penetrante.” Per usare ancora un'espressione di S.Gallo, quello di Bestie da soma è un peculiare “Realismo che consegue un'originale sintesi tra disegno, studio del vero e colore, per dare massima evidenza e pregnanza di reale alle scene con cui Patini intese documentare la vita e la terra dei contadini abruzzese.”

Pierluigi Silvan (da Gente d'Abruzzo. Verismo sociale nella Pittura abruzzese del XIX secolo, Cat. Mostra. Assisi, 2010)

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