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Il costume di Scanno

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Il costume abruzzese che maggiormente ha attirato l'interesse degli studiosi è quello di Scanno, tanto da portarli ad affermare che "Scanno è il paradiso del folklore" e che "chi porta il vanto del costume d'Abruzzo è naturalmente Scanno". Alla fine del '700 si sosteneva anche l'ipotesi secondo cui le fogge abruzzesi sarebbero derivate da quella "originale" che si conserva a Scanno. Essa però è priva di fondamento poiché è impossibile riferirsi ad un unico costume scannese costante nel tempo, date le molteplici e contrastanti descrizioni che abbiamo di esso. L'abito femminile di Scanno è simile, almeno nelle sue componenti essenziali a quello dei paesi della Conca Peligna, dell'Alto Sangro e della Marsica. I più antichi documenti che parlano dell'abbigliamento delle donne scannesi riguardano i corredi dotali dei secoli XVI-XVIII dove troviamo abiti molti diversi da quello oggi conosciuto. Diversità ravvisabili anche grazie ad un importante piatto di ceramica antica che raffigura un uomo e una donna in costume prodotto della Real Fabbrica di Capodimonte nel secolo XVIII. L'abbigliamento si differenzia soprattutto nel copricapo, la cui originalità non è dovuta solo alla sua strana forma ma soprattutto al suo motivo ornamentale rappresentato dall'uso di intrecciare i capelli, preventivamente divisi in due trecce, con dei cordoni di seta colorati, chiamati in dialetto "lacci". L'origine dei nastri di seta intrecciati ai capelli è da ricondurre a una moda barocca e spagnoleggiante diffusasi in tutto il centro-sud Italia dal '700 in poi, mentre inizialmente erano assenti (come dimostra anche il piatto). Nella ceramica si nota come il cappello fosse perfettamente tondo, senza punte laterali sulla fronte, secondo l'uso arabo, con veletta pendente a due code. Si portava inclinato a destra o indietro e copriva quasi interamente i capelli; questi si raggruppavano dietro l'occipite e si tenevano raccolti in una reticella di seta o di lino, detta "razzola", spesso ornata di monete d'oro. La descrizione del costume antico fatta da Michele Torcia nella sua preziosa opera "Saggio Itinerario Nazionale pel Paese de' Peligni fatto nel 1792" sembra una didascalia scritta per il suddetto piatto: "La gonnella di panno è di tinta immarcescibile, paesana...è tagliata a guisa di "toga" o stola sino ai talloni, lavorata con le loro proprie mani. Viene ornata nel lembo da varie fasce posta l'una sopra all'altra di scarlatto o di vellutino in seta di color diverso da quello della toga. Le maniche strette nella parte superiore son guarnite di nocchettine di fettucce, in guisa d'un grandioso ricciato dall'omero al polso, di colore anche differente dal fondo del panno. Le cuciture delle maniche sono ornate di liste di scarlatino o vellutino corrispondenti e legate insieme da un lavoro che con vocabolo paesano è detto "interlacci". Il petto e la schiena della gonna sono parimente ornati con simile lavoro. La pettina chiusa da due grappi di argento in forma delle "Bulle" antiche sul petto, viene stretta sui fianchi da bottoni d'argento o pure da lacci di seta. Sotto portano la vera "tunica" antica senza maniche, qui detta "casacca": coprono le gambe con calzettedi panno blù o verde, ricamate in oro od in seta, e i piedi con pianelle o sian "pantofole" coverte di raso di color diverso dal fondo, e ricamate in oro o in argento. La testa viene coverta da un fasciatojo di saja blò, da esse tessuto con varii fili ed intrecciati ricami in seta, degni d'Aracne. Il fasciatojo sta legato da un "violetto", cioè veletto sottile di bambagia intralciato con fili di seta di varii colori: e questo, ripiegato indietro e pendente a due code compisce un ornato ancor più grazioso che quello del turbante delle donne turche. Il ricamo del fasciatojo vien detto "rose strocche", e il turbante "cappelletto". Il "violetto" rappresenta la vitta e l'infula delle antiche sacerdotesse, e il cappelletto la "mitra". Le "circeglie" ornano i loro orecchi pendenti di oro in sottil filigrana o solidi di valore: il collo un laccetto o sia cateniglia dello stesso metallo di fino lavoro accompagnanti d'altri fili di "cannacchi" con crocifisso od altra immagine di santi, ed anche "collane" di "zecchini veneziani". Le dite andavano cariche di anelli fini con pietre... A chiesa portano il rosario d'oro o d'argento. Il senale di lana è anche finamente ricamato con un lavoro "fermo" detto "frangia" e con "lenzi" o "zone" corrispondenti... Effettivamente il vestire di queste donne scannesi in "roba talare" coperta di "fimbrie" e ricami, e colla mitra o sia turbante e velo annodato e pendente indietro, serba l'aspetto grazioso e venerando che noi ammiriamo nelle sublimi donne dell'antichità, scolpite in marmi o in bronzo, e in maggior copia ne' gruppi inimitabili de' vasi tirreni o etruschi". A questa prima foggia molto ornamentale, caratterizzata da abito rosso, turchese, giallo, che rimase in auge fino a metà '800, seguì una profonda mutazione. Nel 1843 Edward Lear vide le donne di Scanno vestire in modo alquanto diverso dalla foggia descritta in passato, quando l'abito era "di stoffa scarlatta, riccamente ornata di velluto verde, trine d'oro e altro... Oggi sia la gonna che il corsetto sono di stoffa nera o blu scuro. La prima è molto ricca, il busto è cortissimo, il grembiule è in tessuto scarlatto o cremisi". Anche il copricapo andava assumendo una nuova linea: "un fazzoletto bianco che ricade sulle spalle, sormontato da una cupola di stoffa scura tra le classi più povere, ma di satin operato color vermiglio tra le più ricche. Questa poi è fasciata tutt'intorno da nastri giallo-pallido striati da vari colori. Le più povere, tuttavia, indossano questa banda supplementare solo nei giorni di festa". Con l'abilità che gli viene dalla pratica al disegno illustrativo, il viaggiatore inglese delinea, in poche righe, un gentile ritratto: "I capelli sono meravigliosamente intrecciati con nastri, gli orecchini, i bottoni, le collane e le catene sono d'argento e, nelle famiglie ricche, di solito assai costosi... Per la carnagione fresca e chiara, gli splendidi capelli, l'espressione dolce i lineamenti delicati, le donne di Scanno sono decisamente tra le più belle che io abbia visto in Abruzzo". I documenti seguenti, sia letterari che iconografici, a cominciare dalla notissima monografia di Giuseppe Tanturri, pubblicata nel 1853 ne "Il Regno delle due Sicilie descritto ed illustrato", fino alle tavole colorate di Estella Canziani (1914), passando per le numerose relazioni di tanti viaggiatori stranieri che visitarono questo pittoresco paese o per la sia pure discussa interpretazione di Alfonso Colarossi-Mancini (1916), confermano la costante evoluzione dell'abito tradizionale scannese che assume, nella foggia e nei colori, l'attuale sobria unicità nel pur composito e complesso panorama della cultura materiale regionale. Una evoluzione diacronica e sincretica, fermatasi agli anni Cinquanta che, mutando in dettagli e particolari, tuttavia non ha minimamente intaccato la forza simbolica e rappresentativa della vestitura festiva, la cui nota dominante dal Seicento ad oggi, sta nella regale sontuosità dell'insieme. Uno spunto di riflessione viene dalle pagine di Anne MacDonnel, sensibile antropologa inglese che visitò l'Abruzzo nel 1908: "Scanno è un paese di donne che hanno ampiamente meritato la fama di essere belle... La loro riservatezza ha qualcosa di misterioso che si addice all'abbigliamento scuro e a quelle strade buie e strette. Ella è una montanara orgogliosa, indipendente ed autosufficiente, una grande conservatrice della vita tradizionale. Si potrà non apprezzare tutte le abitudini del suo paese, ma lei con molta calma, per porre fine all'argomento, ti risponderà: così si fa a Scanno... La sua principale caratteristica sta nel portamento lungo le strade di montagna, quando trasporta sul capo le fascine, o lungo le vie acciottolate con le conche d'acqua sulla testa, essa cammina eretta con le mani sui fianchi o nascoste sotto il grembiule, con i piedi rivolti verso l'interno, in modo sciolto e spedito e con un movimento ondeggiante... La forza che ha è impressionante. Qui è la donna che cucina, che tesse, che sferruzza, che colora le stoffe e fa tutto questo come una cosa naturale. In estate raccoglie la legna da ardere per il lungo inverno, lavora nei campi, custodisce le greggi e, se occorre, diventa muratore... L'autosufficienza di cui Scanno gode si deve quasi interamente alle svariate capacità delle donne che nelle case cardano, colorano, filano, tessono la lana per farne abiti coperte, tappeti, copriletti, calze nastri. A questo punto qualcuno potrebbe pensare che la loro è una vita da schiave, ma le donne di Scanno possono sembrare tutto meno che schiave. Hanno piuttosto un'aria regale e non ho mai visto tante regine tutte insieme, come in questo posto. Esse sono i pilastri del paese e sono pienamente consapevoli del loro valore e della loro importanza nella famiglia. Nei rapporti con l'altro sesso sono molto riservate. Nei giorni di festa è possibile vederle in gruppi di dieci o venti (veri e propri clubs) sulle scale di pietra, mentre si raccontano storie. Nei momenti di svago non cercano facili amoreggiamenti con gli uomini e anche quando i carabinieri, con le loro uniformi sgargianti, lanciano alle donne, dai balconi che si trovano di fronte alla fontana, sguardi amorosi, queste rispondono con occhiate sdegnose di sotto alle conche di rame. Quanto ai viaggi che intraprendono queste forti donne, si può dire che siano limitati a quelli fatti per raggiungere la montagna e i boschi, cosicché l'unica occasione di svago è offerta dalle funzioni religiose. I vespri, nella chiesa parrocchiale o in quella di San Rocco sono uno spettacolo singolare. Le figure accovacciate a terra formano un tappeto che ricopre tutto il pavimento. Infatti le donne di Scanno non usano mai la sedia se non quando pranzano. Quando si riposano la loro posizione preferita, che è comune a tutte quando sono in chiesa, è quella di accovacciarsi sul pavimento con le gambe incrociate". Come detto il costume scannese subì in questi anni numerosi cambiamenti che coinvolsero, altre al copricapo, soprattutto il colore dei vestiti, la cui varietà fu sostituita dal monocromia del nero. Molti associano questo colore all'idea del lutto, ma è un'ipotesi che non trova fondamento, visto che esso era presente anche nel vestiario delle donne non in lutto. Probabilmente la scelta del colore nero è dovuta alla necessità di attirare il sole, quindi il calore, data la posizione elevata del paese. Lo stesso può dirsi per l'impiego dei tessuti di lana che risulta più frequente, ovviamente, nei centri montani. Sono infatti assenti nell'abbigliamento tradizionale fazzoletti e tovaglie in lino bianco che invece predominano nelle fogge dei paesi a valle, come per esempio Pettorano sul Gizio, dove si aveva la necessità contraria, quella cioè di difendersi dai raggi del sole durante i mesi estivi. Gli scannesi invece indossano panni di lana in ogni stagione. Anche il copricapo subì costantemente e lentamente una profonda trasformazione fino ad acquisire una forma ben definita, che è quella che vediamo ancora oggi, quella cioè del "cappellitto". Questa stabilità di forma è stata raggiunta soprattutto quando si cominciò a confezionare il copricapo in laboratorio, a differenza di quello antico che si componeva per essere indossato e si disfaceva dopo l'uso ed era quindi soggetto a numerosi cambiamenti. Esso era molto simile ad un turbante che copriva tutto il capo mentre quello che vediamo oggi è più piccolo e viene poggiato sulla sommità della testa. Le donne scannesi usavano dividere i capelli in due porzioni che raccoglievano posteriormente in due ciocche; esse venivano intrecciate con lacci lunghi 12 metri di lana o di seta di vario colore a seconda delle circostanze e fatte girare sul capo a mo' di corona per tre volte, lasciando dietro le orecchie due trecce disposte a semicerchio che restavano visibili, mentre il resto veniva coperto dall'originalissimo cappelletto. Si tratta di una specie di turbante alto, con lunghe code e non increspato sul davanti. Esso è costituito dalla "tocca", dal "fasciatoio" e dal "violetto". La "tocca" è una fascia di bambagia a più pieghe, alta mezzo palmo circa, che si avvolge dalla fronte all'occipite e da questo ancora alla fronte e costituisce l'armatura del cappelletto. Su di esso si mette il "fasciatoio", un pezzo di merinos (tessuto di lana non gualcato) di color turchino scuro, le cui metà spiegano sul vertice, adattando il lembo destro sul sinistro e rovesciando l'estremità anteriore su quella posteriore, facendo rimanere dalla fronte in su un quadrilatero più o meno alto; piegano poi il lato sinistro sul destro, arrotondano gli angoli anteriori e fissano con spille nella parte posteriore all'orlo superiore della "tocca" le due parti ristrette, che vanno così a cadere penzoloni fra le scapole. Questa è l' " 'ncappatura " cioè la tenuta giornaliera. Per avere il "cappelletto" occorre invece il "violetto", cioè una seconda fascia di bambagia grezza e di lento tessuto, la quale, coi suoi giri, copre parte del fasciatolo e lascia nel suo ultimo giro delle liste verticali intessute di seta a vari colori e anche a filigrana. Giornalmente le donne coprono il capo con un semplice panno di lana di vario colore a forma quadrata, detto "maccaturo", simile a quello usato nel '500, che viene annodato dietro il collo in modo da fasciare il capo come un turbante nascondendo i capelli e lasciando cadere sulle spalle due lunghe code. L'attuale costume femminile prevede un solo tipo di gonna, detta "casacca", mentre fino agli ultimi anni del Settecento (periodo in cui il costume cominciò a subire delle modificazioni rilevanti) le gonne erano di colore diverso e non è improbabile, anche se di difficile dimostrazione, che il colore e il tipo di stoffa adoperati stessero a indicare il ceto e la condizione sociale di chi la indossava. Lunga fino alla caviglia, essa era composta da 6 a 12 panni di colore verde scurissimo e ogni panno era largo 60 centimetri e cucito verticalmente fino a raggiungere una lunghezza che varia tra i 11 e i 15 metri. Il materiale di base era una tela di lana plissettata a freddo di colore verde. La plissettatura si otteneva trapassando con tre fili di refe la stoffa raccolta in pieghe larghe circa 5 centimetri. Il tessuto saldamente tirato veniva bagnato e messo ad asciugare all'ombra per due settimane. Rimaneva così plissettato permanentemente (l'abito non si lavava mai) e poi cucito alla scamiciata. La parte posteriore della gonna era leggermente arrotondata a strascico. Il retro della gonna era plissettato fino ai fianchi, mentre la parte anteriore era liscia, a portafoglio o con poche pieghe. La gonna veniva allacciata e regolata con uno spillone d'argento e "ciappe". Era cucita alla cintura molto alta in vita, a formare una sorta di scamiciata in tela chiara, ed era sostenuta da bretelle delle stesso materiale. Il peso della gonna era molto elevato, circa 10 kg. La gonna non aveva "pedana" (decorazione). All'interno della base c'è la " p'dera " di panno rosso, alta circa 8 centimetri, che preveniva strappi e usura. Essa aveva poi una larga tasca, detta "scarsélla", posta lateralmente sul fianco destro, destinata a contenere piccoli utensili metallici. Per evitare che la gonna si sporcasse o logorasse durante i lavori campestri, veniva fissata in su fino ai polpacci e stretta ai fianchi da una cinta di tessuto, chiamata "azzaccaratora". La gonna era sormontata dalla "mantera", molto ampia, larga oltre due metri, che nell'uso quotidiano era in tela di lana, con trama e ordito in colori diversi, spesso melangiati ("ju mmisteche") o a righe, oppure in tinta unita rossastra ("mboc'rosce"); se di uso festivo, la "mantera" era in lana gualcata ("zimbata") o in seta moiret chiara, oppure operata a motivi floreali stilizzati in tinte tenui, operata o ricamata in oro, o ancora a fantasie geometriche. Spesso, nel caso delle "mantere" cerimoniali il tessuto proveniva dalle tessiture di Sulmona (lana) o di Napoli (seta). I panni della "mantera" erano cuciti verticalmente, ed erano arricciati, oppure cuciti su una fettuccia di cotone che veniva stretta in vita. La "mantera" quotidiana, invece, di tessuto più rustico, era spesso strettamente pieghettata in vita e rifinita da un orlino sbieco di colore contrastante ("ruitte"). La "mantera" si allacciava sotto la blusa altissima sopra la vita, si faceva un giro di nastro che ricadeva sul davanti, lasciando libera la parte posteriore da dove escono le pieghe della gonna. Aveva poi due aperture laterali, dette "carafocce": quella di destra serviva per poter infilare la mano nella tasca, tutte e due servivano per poter mettere le mani sotto il grembiule essendo abitudine delle donne scannesi portarle così. Il giubbotto, detto "cummodine", era diviso dalla gonna. Di colore nero o blu-nero, poggiava sopra la vita, in modo da coprire la cintura della gonna. Il "commodino" non aveva riprese laterali né stecche, ed era aderente e rigido, eventualmente imbottito con crine o altro materiale, e saliva sopra il seno. Il corpetto aveva una codina sul retro, forse usata per tirarlo verso il basso. Più probabilmente la sua funzione era quella di terminare decorativamente la cucitura mediana posteriore del corpetto, che aveva un bellissimo taglio lobato sopra ciascuna scapola per modellarlo sulla schiena. Il "commodino" era chiuso sotto il seno anteriormente da invisibili " b'ttine " (ganci). L'abbottonatura (" b'ttiglie ") era costituita da dodici bottoni d'argento: nella parte superiore sei bottoni disposti verticalmente, e altri sei nel mezzo disposti in due ordini su un pezzo di panno rettangolare chiamato "pettiglia". Tutti e dodici con asola ricamata in colore chiaro, i bottoni riportavano decorazioni di soggetti religiosi o magico apotropaici. Questo tipo di bottone era antico e spesso vi si trovava raffigurato lo Spirito Santo (colomba), la testa di leone. Si trattava di bottoni con anima di rame e lamina in argento pressata. Lo scollo era guarnito da merletto bianco lavorato al tombolo con motivi che si ritrovano pure nelle filigrane ("scolla"). La manica del "commodino" era molto ampia e arricciata (" train' ") sulle spalle e ai polsi da un doppio o triplo filo di refe tirato strettissimo e terminato con un punto croce. L'interno del "commodino" era foderato con rigatino di cotone, l'interno della manica in broccato o cotone stampato. Tutto il profilo del "commodino" è rifinito dal "ruitte" sbieco di seta oro o bianca ripiegato e cucito tra stoffa e fodera sui bordi del comodino e che formava pure un doppio giro al bordo esterno del polsino. Per quanto riguarda la biancheria sicuramente sotto l'abito si indossava la camicia, cioè la camicia da notte. Si potevano poi indossare calzoncini o mutandoni in cotone, provvisti o meno di spacco (molti originali sono visibili al Museo della Lana di Scanno). Sotto al seno si portava la fascetta che lo rialzava. Le calze erano bianche o turchine, mentre le scarpe erano nere (bianche per cerimonia), di pelle morbida, con tacco alto e punta stretta, spesso decorate con fibbie d'argento. Di uso più umile e quotidiano erano le "cazette f'rrate", calzettoni imbottiti sulla pianta con pelle di pecora conciata e trapunti fittamente con refe per renderli simili a suole, che erano usati come calzature. Riguardo agli ornamenti, le donne scannesi usavano portare al collo lacci d'oro a maglia sottilissima dai quali scendevano ciondoli d'oro fissati alla pettiglia. Per le orecchie usavano pendenti più o meno grandi ("cerceglie") e alle dita anelli con castoni grandissimi, veri e propri capolavori di oreficeria. Molto meno ricco e articolato è il costume maschile (oggi quasi completamente scomparso), poco caratteristico e quasi uguale a quello di tutti gli altri paesi. Esso era di panno di lana di colore nero, formato da una stretta giacca a due petti tagliata in basso in linea retta con le tasche leggermente oblique. Anche il panciotto ("cammiciola") era a due petti con numerosi bottoni su due file e quattro taschini (due per ogni lato), mentre la camicia era di flanella. I pantaloni, stretti alla vita da una cinta di cuoio, erano quasi aderenti alle cosce e si prolungavano di poco sotto il ginocchio dove erano stretti da "stuvale", una specie di gambali di panno o di crini di cavallo, che si legavano al di sopra del ginocchio. Il cappello, duro, era piatto con falde orizzontali, mentre le scarpe erano basse.

Informazioni:  Bibliografia * Accardo V. - Cercone F., Costumi popolari d'Abruzzo, L'Aquila 1982, tavv. III, XIV. * Canziani E., Through the Appennines and the lands of the Abruzzi: landscape and peasant life described and drawn, Cambridge 1928, plates XVII-XIX. * Celidonio G., L'antico corredo di Scanno, in "Rassegna abruzzese di Storia ed Arte", n. 5-6, Casalbordino 1898, pp. 279 ss. * Colarossi-Mancini A., Storia di Scanno e guida della Valle del Sagittario, Scanno 1983. * Lear E., Illustrated excursions in Italy, s.l. 1846. * MacDonnel A., In the Abruzzi, London 1908. * Morelli G., Il costume di Scanno. Notizie storiche, Pescara 1960. * Sabesta G., Il costume di Scanno, Fondazione Tanturri 1993. * Tanturri G., Scanno, in F. Cirelli (a cura di), "Il Regno delle Due Sicilie descritto ed illustrato", Napoli 1853, vol. XVI, fasc. IV, p. 120-121. * Torcia M., Saggio Itinerario Nazionale del Paese de' Peligni fatto nel 1792, Napoli 1793, pp. 124 ss.

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